Buon compleanno insurrezione rossonera zapatista

Articolo e Video sottotitolato di Sergio Rodrieguez Lascano, direttore di Rebeldia, tradotto da Resistenza Antisistema

A Due dei nostri:
a Eladio Villanueva Saravia, morto dopo aver compiuto il suo dovere mentre tornava da una riunione dei lavoratori . Per diversi anni segretario generale della Confederazione generale del lavoro dello Stato spagnolo. Sindacalista rivoluzionario, erede della migliore tradizione anarco-sindacalista degli anni 30. Innamorato della lotta zapatista, fu un fattore determinante non solo per la solidarietà con le comunità indigene, ma anche per riflettercisi come uno specchio. Eladio, amico, compagno, faceva parte degli irriducibili, dei ribelli, dei sovversivi. Il tuo ricordo è nei nostri cuori.

A Calixto Tlacotzi Meléndez, bracciante indigeno della montagna di San Pedro Malintzi Tlalcualpan, Tlaxcala. Morì Lunedi 16 novembre e le parole che i suoi parenti hanno sentito prima della morte furono: “Avvisate il subcomandante Marcos che ho compiuto il mio dovere, che non mi sono venduto, che non mi sono arreso, che non mi sono fatto ingannare”. I suoi compagni dell’Assemblea Nazionale dei braccianti hanno aggiunto: “Il compagno morì sul piede di guerra e, come lui, anche noi abbiamo preso la decisione di vivere e morire senza arrenderci”. Di questa stirpe era il nostro compagno Calixto, di questa stirpe sono i nostri compagni braccianti.

Nel seminario di due anni fa “in memoriam de Andrés Aubry”- maestro-studente, compagno delle comunità zapatiste ribelli- il Subcomandante Insurgente Marcos concludeva il suo primo intervento mettendo al centro del dibattito sette tesi, di cui le ultime quattro dicevano:“QUATTRO.- Il Capitalismo non ha come destino inevitabile la sua autodistruzione, a meno che non includa il mondo intero. Le versioni apocalittiche sul fatto che il sistema collasserà da solo sono erronee. Come indigeni è da vari secoli che sentiamo profezie in questo senso.
“CINQUE.- La distruzione del sistema capitalista si realizzerà solo se uno o molti movimenti l’affrontano e lo sconfiggono nel suo nucleo centrale, cioè, nella proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio.
“SEI.- Le trasformazioni reali di una società, cioè, delle relazioni sociali in un momento storico, come bene lo segnala Wallerstein in alcuni dei suoi testi, sono quelle che vanno dirette contro il sistema nel suo insieme. Attualmente non sono possibili le toppe o le riforme. Invece, sono possibili e necessari i movimenti antisistémici.
“SETTE.- Le grandi trasformazioni non incominciano dall’alto né con fatti monumentali ed epici, bensì con movimenti piccoli nella loro forma e che appaiono come irrilevanti per il politico e per chi li analizza dall’alto. La storia non si trasforma a partire da piazze piene o moltitudini indignate bensì, come lo segnala Carlos Aguirre Rojas,  a partire dalla coscienza organizzata di gruppi e collettivi che si conoscono e riconoscono mutuamente, in basso ed a sinistra, e che costruiscono un’altra politica.”

Due anni dopo, vorrei affrontare queste quattro tesi, cercare il loro sviluppo e tentare di localizzare quello che, dalla mia particolare prospettiva, rappresenta uno dei tratti centrali del pensiero zapatista.

1.    Molti anni fa, un socialista nordamericano, Hal Draper, scrisse un piccolo opuscolo intitolato “Le due anime del socialismo”. In questo, realizzava un’analisi storica delle due forme di intendere la lotta per la costruzione del socialismo:  una dall’alto ed un’altra dal basso. Lui concludeva:  “Dal principio della società, sono esistite un’infinità di teorie che “provavano” che la tirannia è inevitabile e che la libertà in democrazia è impossibile;  non c’è un’altra ideologia più conveniente per una classe dominante e per i suoi lacche’ intellettuali. Si tratta di predizioni autosoddisfatte, poiché queste sono certe solamente se sono prese come certe. In ultima analisi, l’unico cammino per dimostrare la loro falsità è la lotta stessa. Questa lotta dal basso non è stata mai controllata dalle teorie dall’alto, e ha cambiato il mondo più e più volte. Scegliere una qualunque delle forme di socialismo dall’alto vuol dire guardare all’indietro, al vecchio mondo, alla ‘vecchia merda.’ Scegliere il cammino verso il socialismo dal basso è affermare il principio di un nuovo mondo.”
In fondo, E’ qui che si colloca  il dibattito centrale che oggi si esprime nell’insieme del pensiero di sinistra. E non in un dibattito mal formulato, astratto e profondamente astorico, sul potere. In cui, da una parte, alcuni confondono prendere il potere con vincere elezioni, nonostante  si mantenga intatta la logica interna del capitale (cioè, lo sfruttamento, l’incremento del lavoro astratto, l’autovalorizzazione del capitale), l’esproprio, (il permanente processo di separazione dei produttori dai mezzi di produzione); il disprezzo con il quale si persegue  chi pensa, si veste, vive o è differente;  e la repressione, mantenendo intoccata la vecchia struttura burocratica dello Stato oligarchico o dittatoriale: la polizia e l’esercito.
E, d’altra parte, c’è chi colloca la lotta contro il capitalismo unicamente come gesti e simboli:  oggi smetto di credere nel capitale e, pertanto, mi distacco da lui. Questo giorno non vado a lavorare, oggi non semino… Come se il lavoratore nella sua quotidianità potesse avere opzioni di questa natura! Capendo male quelle che sono le esperienze zapatiste, per le quali lanciarono la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona.
Il problema del potere è qualcosa di molto serio che non può essere banalizzato:  Né per quelli che si dicono rivoluzionari e si preoccupano di preparare la prossima partecipazione elettorale, per vedere se, finalmente, passeranno con il 5 percento alla votazione. Né per quelli che dicono rappresentare la rivoluzione in minuscolo e fanno una teoria chiusa all’intuizione etica zapatista di non lottare per il potere, per finire nella semiparalisi di una soggettività astratta e, quasi sempre, estranea alla lotta reale di quelli in basso.
La rinuncia zapatista a prendere il potere è una decisione etica e politica, ma questo non vuole dire smettere di lottare per generare una nuova relazione sociale, nella quale chi comanda lo faccia ubbidendo. Dove il potere non sia esercitato da una nuova casta sacerdotale che faccia dell’informazione il monopolio del suo potere. Dove non esista una classe politica con interessi materiali particolari separati e contrari ai lavoratori dei campi e delle città.
Il dibattito sulle due anime del pensiero di sinistra non si riferisce unicamente a due visioni del processo di organizzazione della lotta sociale, bensì allo stesso funzionamento del sistema di dominazione. La crisi attuale, della quale parliamo da due anni, ha messo un’altra volta sul tavolo delle discussioni il tema di queste due anime.
Se potessimo fare un riassunto di ciò che si promuove da sinistra di fronte a questa crisi, potremmo dire che i riformisti non promuovono ormai nessuna riforma reale (riformismo senza riforme), e che i rivoluzionari sono quelli che promuovono un’uscita riformista (rivoluzionari riformisti) che cerca di dotare lo Stato di vecchi attrezzi, i quali furono utili nella parentesi che aprì la dittatura del denaro immediatamente dopo la Rivoluzione russa. (Che ora alcuni vogliono ridicolizzare come un semplice colpo di Stato. Un “colpo di Stato” che fece tremare  Wall Street, la City londinese, la Bourse di Parigi; che fece cambiare la forma dello Stato e che riempì di speranza milioni di esseri umani in tutto il mondo).
Il problema che hanno queste visioni è che non capiscono qual’è il cuore della dominazione capitalista. Il problema non è se la proprietà è privata o statale, quando lo Stato è al servizio di una borghesia parassitaria. Questo lo sappiamo bene in Messico. Il petrolio statalizzato non fu uno strumento per la società contro la borghesia, ma invece, fu la base sul quale si costruì il capitalismo messicano. Potremmo dire la stessa cosa delle ferrovie o dell’elettricità.
Gli zapatisti sono trasparenti, il loro anticapitalismo cerca di sconvolgere il cuore della dominazione, non temono la parola espropriazione dei mezzi di produzione, di comunicazione e della terra, per ridarla nelle mani dei contadini. Non statalizzazione bensì espropriazione. E questo perchè in Messico non ci sono molti spazi dove autorganizzarsi.
Decisamente, la fase attuale del capitalismo ha confiscato i diritti della vita, la vita stessa. I fenomeni di confisca si sono moltiplicati ed amplificati da tutte le parti. Si è espropriata la gente dei propri diritti fondamentali: in quanto “risorsa umana”, non ha diritto all’esistenza se non in funzione del suo rendimento. “Orbene, la forza  lavoro in azione, il lavoro stesso, è l’attività vitale propria dell’operaio, la manifestazione stessa della sua vita. E questa attività vitale la vende ad un altro per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. Cioè, la sua attività vitale non è per lui più di un mezzo per poter esistere. Lavora per vivere. L’operaio neanche considera il lavoro parte della sua vita;  per lui è piuttosto un sacrificio della sua vita. È una merce che ha aggiudicato ad un terzo. Per questo il prodotto della sua attività non è neanche il fine di questa attività.” (Carlo Marx:  Salario, Prezzo e Profitto). Affinché dopo non ci raccontino chi inventò il concetto di biopotere.
Il capitalismo nella sua fase attuale, conosciuta come neoliberismo, con le sue ripercussioni nel terreno dell’economia, della politica, della società, della cultura, dell’ideologia, della comunicazione; col suo processo di riordinamento e riorganizzazione del lavoro per mezzo della combinazione di processi tecnologici molto sofisticati col ritorno al lavoro schiavistico [opposto a “lavoro salariato”…?], con la sua delocalizzazione e rilocalizzazione, col suo outsourcing, con la sua precarietà, è stato completato da una violenza simile ad una valanga per la sua intensità ed estensione. Sono spariti tutti i limiti della morale e della natura, dell’età ed del sesso, dell giorno e della notte. Il capitale celebra le sue orge (Marx dixit). Tutte le congiunture e gli scheletri di tutte le istituzioni che si costruirono all’origine del capitalismo scricchiolano e si sgretolano. Come pelle di vipera giacciono nel suolo, specialmente la democrazia rappresentativa (la grande frode dell’Obama’s dream non è altro che la più spettacolare dimostrazione di cio’). Effettivamente: tutto il solido svanisce nell’aria.

2.     In particolare, la malta delle istituzioni statali si è sgretolata. L’attuale fase che vive il capitalismo rappresenta il punto più alto al quale si è arrivati, ma E’ anche l’origine di una crisi che non può e non deve essere ridotta al suo versante economico, bensì all’insieme delle relazioni sociali che il capitalismo ha edificato, poiché il solo versante economico lascia da parte una serie di aspetti chiave che definiscono i tratti caratteristici di questa fase:  la ridefinizione dello Stato-nazione e, pertanto, del concetto di sovranità nelle sue due varianti: quella del processo produttivo e quella dello spazio territoriale del capitale, con la virtuale eliminazione dello spazio omogeneo dello Stato nazionale, la rottura della catena “territorio-stato-ricchezza.”
Ugualmente, la conversione di territori, situati formalmente in uno o in un altro paese, in “fattori produttivi” nella logica dell’internazionalizzazione del capitale. In qualche modo, si tratta della sussunzione del territorio al capitale, più ancora, la sussunzione della vita, di tutto ciò che è vivo, al capitale;  l’acutizzazione della contraddizione lavoro vivo / lavoro morto e, pertanto, l’incremento della terziarizzazione del lavoro. La crisi della coppia fabbrica-stato, fabbrica-città, per passare alla nuova coppia: territorio-capitale.
Questi sono alcuni dei nuovi tratti più importanti. Senza smettere di menzionare che l’essenza basilare del capitalismo è la competizione e l’eliminazione dell’altro. Pertanto è un sistema che vive e si sviluppa in funzione di crisi permanenti: la crisi è il brodo di vita del sistema. Per questo bisogna fare attenzione a tutte quelle interpretazioni che ci collocano in un sistema armonico e stabile. Dove sembra che tutto sia stato pianificato ed eseguito alla perfezione, dove la logica delle corporazioni Ha già superato tutte le vecchie contraddizioni. Dove tutto è prodotto di un complotto.
Il capitalismo, per la sua esistenza, deve continuare a generare merci e tra le altre, la merce forza lavoro. Non può sopravvivere unicamente con la speculazione finanziaria. La formula D-m-D’ continua ad essere, alla lunga, l’unica via possibile affinché il sistema continui a funzionare. Quelli che pensavano che la formula D-D’ sarebbe stata la panacea che avrebbe eliminato dal vocabolario del capitalismo la parola crisi, oggi stanno vivendo le conseguenze della loro stupidità.
Una delle contraddizioni più grandi che affronta il sistema è che, dato il livello di sviluppo delle forze produttive, si potrebbe sostituire una buona parte della forza lavoro e la riduzione della giornata di lavoro potrebbe essere ancora più drastica di quella che già è stata, ma il vecchio problema della realizzazione delle merci continua a presupporre l’esistenza del lavoro vivo. Questo è solamente un esempio per segnalare che, nella ricerca dei tratti distintivi dell’attuale fase del capitalismo, non possiamo dimenticare che esistono una serie di elementi centrali che non solo non sono cambiati ma si sono intensificati.
In questa cornice, concetti come Stato-nazione, borghesia nazionale, commercio internazionale, partiti nazionali, classe operaia nazionale, sindacati nazionali, rivoluzione nazionale, sono più caduchi che mai. Ciò non elimina il sentimento nazionale dal basso e di quelli in basso, basato non sulle vecchie idee sopra indicate bensì in qualcosa di più profondo:  storie, racconti, novelle, canzoni, poemi, sogni, conversazioni, miti, riti e leggende. Queste parole sono più vecchie e più nuove delle altre. Attraversano le altre, le invadono, le annullano e, quando si pensa che abbiano già smesso di esistere, tornano ad emergere con una forza schiacciante.
In qualche modo, il sistema che incominciò nel secolo XVI con la nascita di un sistema di produzione che, dalla sua fase preindustriale, manifestava nitidamente la sua tendenza verso un espansionismo divoratore ed illimitato, sta finendo con l’immagine che fu disegnata da Marx nel Capitale: un mercato mondiale, effettivamente mondiale, agli albori del secolo XXI. In qualche modo, la geografia, il disegno tracciato da Carlo Marx nel Capitale, sta volgendo a conclusione.

La mondializzazione della produzione e degli gli scambi commerciali e finanziari sono una realtà in tutti i livelli, ma una realtà contraddittoria, limitata e con tensioni che annuncia tanto il disastro come la speranza. O per dirlo con parole più belle, quelle di Charles Dickens in Storia di due città:  “era il meglio dei tempi ed il più detestabile dei tempi;  […]  la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Tutto possedevamo e niente possedevamo.”

3.    In un romanzo cubano, L’uomo che amava i cani, il suo autore Leonardo Padura scrive:  “la vita è più lunga della storia.” Credo che questo sia profondamente vero, io aggiungerei solo:  “la vita è anche più lunga della teoria.”
Se facessimo un breve riassunto di quello che è successo dall’apparizione dello zapatismo, diremmo che abbiamo potuto vedere come la luce dell’esperienza dello zapatismo sia filtrata attraverso un prisma e di lì siano usciti un’infinità di tonalità (questo seminario è stato un esempio supplementare). Parafrasando Marx diremmo:  “da ciascuno secondo il suo zapatismo, a ciascuno secondo la sua illusione.” Questo di per sè non è cattivo, anzi. Ovviamente a patto che non cadiamo in visioni chiuse che non dialoghino tra sé. E, naturalmente, a patto che non commettiamo l’errore -un’altra volta parafrasando Marx-  di rendere realtà il seguente:  “Il problema di ogni analisi sullo zapatismo è che si è dedicata ad interpretarlo quando ciò di cui tratta è di trasformare la realtà.” E credetemi, questo non si ottiene con discorsi né pensieri, per quanto critici che siano. L’unica maniera è nella pratica, cioè, nella vita stessa.
Lasciatemi provare a spiegarlo: L’idea di riunirci affinché lo zapatismo ci dica come vede le cose o quali sono le sue proposte finì nel 2005, con le riunioni preparatorie e con L’Altra Campagna. Ugualmente, credo che dedicarsi ad analizzare lo zapatismo sia di per sè un lavoro un po’ inutile.
Lo zapatismo è quello che è e nessuno meglio di loro l’ha spiegato. Non è come altri movimenti che sperarono nell’arrivo di esperti europei o nordamericani affinché interpretassero la propria lotta, chiaro, il risultato fu quasi sempre impoverente. Per questo, non si è mai capito il lato profondo, cubano, della rivoluzione che trionfò nel 1959 e la si è voluta ridurre ad uno strumento:  la “guerra di guerriglie.”
Perché non si può essere anti eurocentrista o fustigare Hegel e la sua teoria dello Stato per finire parlando tutto il tempo di Hegel, Lenin, Trotsky, Rosa Luxembourg e Gramsci. Un’altra volta, essi furono quello che furono. Loro, insieme a Marx ed Engels, furono rivoluzionari di azione, non teorici. Tutto quello che scrissero lo fecero a partire da un imperativo categorico: la trasformazione della realtà. Si sbagliarono ed indovinarono come chiunque osi unirsi ad un movimento non come osservatore bensì come partecipante. Ciò che ci serve del loro pensiero e di altr@ lo usiamo, quello che non ci serve, lo buttiamo. Credo che sia la stessa cosa nel caso di Bakunin o Kropotkin. Così facile, così semplice. Ma non possiamo vivere con l’ossessione di un passato che, mi dispiace, è già passato.
Un’altra volta, come piaceva ripetere al rivoluzionario di Treviri:  “Lasciare che i morti seppelliscano come Dio comanda i propri morti.”
Lo zapatismo, credo, è uno di questi inizi o principi nella storia, l’ho segnalato già in altre occasioni. Di questi veri nuovi principi ne sono esistiti vari: la rivoluzione francese del 1789, la rivoluzione per l’indipendenza in Messico del 1810, la Comune di Parigi del 1871, la Rivoluzione del 1910-1919 in Messico, la rivoluzione russa del 1917, la rivoluzione Cinese del 1949-1950, la rivoluzione cubana del 1959.  La virtù che hanno questi principi è che si può dialogare con essi senza necessità di giudicarli, metterli in tribunale, condannarli e dopo metterli al muro. Si possono e si devono intendere come parte di quella lunga lotta dell’umanità per mettere nelle proprie mani il controllo dei propri destini, di quella lunga lotta per l’emancipazione umana. Dialogare con questi principi è buono, di volta in volta. Il consiglio del filosofo Baruch Spinoza continua ad essere valido:  né ridere né piangere bensì comprendere. O meglio ancora: ridere, piangere, amare, comprendere, ma soprattutto lottare.

4.    Noi

“Non morrà il fiore della parola, potrà morire il viso nascosto di chi la pronuncia oggi, ma la parola che venne dal fondo dalla storia e della terra non potrà essere zittita dalla superbia dei potenti. Noi nascemmo dalla notte, in lei vivemmo, in lei moriremo, ma domani la luce sarà per i più, per coloro ai quali oggi è negato il giorno… Noi siamo la dignità ribelle, il cuore profondo della patria… per noi niente, per tutti tutto.

Il calendario zapatista non è uguale a quello del denaro né a quello della classe politica (come per esorcizzare il 2010, si rinnova la Cocopa [Commissione di Concordia e Pacificazione] che lancia una spiegazione elogiando tanto Cesare come Dio, cioè, si decide di continuare a fare il ridicolo a SPESE dell’erario della nazione). Bene, in questo calendario degli zapatisti, in un testo del 2005 intitolato L’impossibile geometria del potere, si segnalava esplicitamente quello che oggi sta succedendo con la classe politica di tutti i partiti:  tutto ciò di cui essi parlavano era un scambio senza pubblico, senza udienza. Era ed è un dialogo tra di loro.
Ugualmente si notava che se i mezzi di comunicazione si imbarcavano in questa logica, avrebbero perso qualunque credibilità. L’esempio di quello che ha pubblicato il quotidiano “La Jornada”, in maniera vergognosa (cioè, non in prima pagina) sulla supposta resa degli zapatisti, non è altro che un esempio di questo processo.
Allo stesso modo, in un altro testo, era stato detto agli intellettuali che disprezzarono e si presero gioco del movimento degli studenti del CGH che quell’azione avrebbe avuto conseguenze, che “i sottoscriventi” non avrebbero avuto più lo stesso peso e che lo avrebbero perso sempre di più se si fossero lasciati guidare tra le braccia di una classe politica sempre di più decomposta. In qualche modo, era stato detto loro che si sarebbe TORNATI a quello che era l’ambiente intellettuale precedente l’insurrezione zapatista. E, finalmente, si faceva capire che lo zapatismo avrebbe fatto un nuovo salto.
Poco dopo, lo zapatismo scrisse un non addio che, alla fine, sembra che sì lo fosse stato alla signora società civile:  “…chi ci ha appoggiato fino ad ora nella lotta esclusivamente indigena potrà, senza pena né rimorso alcuno, separarsi da quella ‘altra cosa’ alla quale si riferì il Comandante Tacho nella piazza di San Cristobal de Las Casas nel gennaio del 2003, due anni e mezzo fa. In più, c’è un comunicato che, da qui a là, fa quella delimitazione e che può essere presentato in un colloquio di lavoro, curriculum vitae, riunione di caffè, sala di redazione, tavola rotonda, chiosco, foro, palcoscenico, aletta di libro, nota a piè di pagina, colloquio, precandidatura, libro di confessioni o colonna giornalistica e che, inoltre, ha il vantaggio di poter essere esibito, come prova a discarico, in qualunque tribunale …Ma chi trovi nel suo cuore un’eco, anche se piccolo, della nostra nuova parola e si senta chiamato dalla strada, dal cammino, dal ritmo, dalla compagnia e dal destino che abbiamo scelto,  decida di rinnovare il suo appoggio (o di intervenire direttamente)…sapendo che sarà ‘un’altra cosa’. Così, senza inganni, senza simulazioni, senza ipocrisie, senza bugie.”
Lo zapatismo, quindi, non cercava di stabilire, con tutti e tutte, vincoli di solidarietà intorno alla lotta indigena, bensì vincoli di solidarietà con le e gli sfruttati, espropriati, disprezzati e soffocati del Messico e del mondo. Credo che mai una forza politica di sinistra sia stata tanto chiara e tanto onesta nella sua impostazione politica.
Così, si sta creando un Noi nuovo. Un noi nel quale ormai non aspettiamo che lo zapatismo ci dica che cosa fare, né in che momento farlo. Un noi che cammina non dietro, non avanti, bensì al suo fianco. Da compagno a compagno. Un noi che può guardare negli occhi le comunità zapatiste in ribellione e sostenere lo sguardo.
Un noi che capisce e rispetta il silenzio zapatista, perché loro hanno ottenuto il diritto di parlare, ma anche di tacere, e quasi sempre dopo un silenzio prolungato qualcosa di forte suona. Non è come il rumore permanente della classe politica che cerca di far parlare gli zapatisti, sia facendo intendere che si arresero o sia parlando delle bontà delle Giunte di Buon Governo. Ed uno si domanda:  se questi politici dicono che sono tanto buone, perché , per lo meno, non cercano di imitarle e smettono di riscuotere le fortune che gli pagano per essere “rappresentanti popolari”?
Lo zapatismo non agisce nella maniera del denaro né della classe politica, né di quelli che, disperati, vogliono che gli dicano se vanno bene.
Il Tempo zapatista è molto altro e, sempre di più, credo che debba essere il nostro tempo. Lo spazio già è chiaro: si colloca in basso ed a sinistra, nel luogo dove la gente lavora, manualmente o intellettualmente. Dove quello che si possiede, la forza lavoro, si vende immediatamente: nella fabbrica, nel campo, nelle scuole, nell’angolo del quartiere, nei mercati pubblici, nella montagna, nella pianura, nel commercio informale, per strada… (ora permanentemente vigilata da videocamere da spionaggio a Città del Messico, mentre Marcelo e la sua consorte sognano che lo Zocalo di città del Messico sia il Rockefeler Center o gli Champs Elisee, e che se non c’è neve la inventiamo, come si inventano la realtà di un governo preoccupato per i poveri ed organizzano consultazioni per sapere se passa più spesso la metro senza fare la domanda concreta).
Noi (nosotros y nosotras) quelli che già capimmo l’importanza della pazienza impaziente.
Noi quelli che non vogliamo più che ci risolvano i nostri problemi, ma li vogliamo risolvere insieme ai compagni e alle compagne zapatiste.
Noi quelli che già  capimmo che non è neanche conveniente creare problemi gratuiti alle comunità.
Noi quelle che viviamo nella frontiera della sopportazione. Ai margini della società, ma quei margini sono sempre più larghi, più grandi, mentre il centro è solo un punto dove si agglutinano sempre di più i 30 gruppi finanziari nazionali, i 100 gruppi finanziari internazionali ed una classe politica sempre più cinica.
Noi le condannate della terra, i senza tetto, i senza terra, i senza documenti, i nobody, i senza corpo.
Noi  quelli che, in tutto il mondo, decidiamo che il nostro posto è tra quelli in basso, tra gli emigranti, tra le donne violentate.
Noi quelli che riconosciamo gli sforzi e quella lotta di quelle noi che cerchiamo di essere.

Nulla a che fare con dietro un gran uomo c’è una gran donna, no, il nostro lemma è che di fianco ad ogni donna c’è un uomo, non per difenderla bensì per cambiare insieme le relazioni sociali di sfruttamento che hanno permesso il mantenimento del patriarcato; O, è il contrario?
Noi quelli che decidiamo di condividere la nostra sorte con le comunità indigene zapatiste, senza curaci dei rapporti di forza, né dei consigli prudenti, né del tintinnare dei signori del denaro.
Noi che viviamo a Vicenza e Roma;  a Parigi, nelle sue banlieus tanto piene di rabbia; a Los Angeles e New York;  a Madrid, Barcellona e Saragozza;  a Buenos Aires e Sao Paulo. In tutti quegli angoli del mondo che sono il mondo stesso. Anche con tutti loro abbiamo costruito questo Noi che ci abbraccia e ci unisce.
Noi le sue compagne, noi i suoi compagni, in questo inizio del 2010 possiamo dire, con un certo orgoglio:  siamo pront@. Ci costò molto, ci sbagliammo troppo, dovemmo imparare a disimparare, la più complicata tra le cose da imparare. Ma qui stiamo al vostro fianco compagni zapatisti.
Siamo di fronte ad un nuovo discorso ed una nuova pratica della ribellione e questa non è stata elaborata partendo da un capo, un dirigente o un partito, o incluso un Esercito ribelle né da un Subcomandante. Può contare sullo zapatismo e sul suo capo militare, il Subcomandante Insurgente Marcos, ma deve essere lavorato tra molti e tra differenti. Si tratta di dare tutta la forza alla società dal basso, ciò permetterà che le azioni di questa esprimano lo sviluppo di un’energia umana che cerchi di cambiare le relazioni di dominio e portare a termine un regolamento di conti con I precedenti anni di ingiustizia. Che costruisca un cammino di solidarietà umana e che, contemporaneamente, apra un spazio di ribellione contro il conformismo sociale e la rassegnazione di fronte alle azioni dei signori del denaro e della guerra.
Questa nuova pratica rappresenta una dinamica di ribellione contro l’ingiustizia, la bugia, l’intolleranza, il dispotismo, l’egoismo. Rappresenta anche la volontà di farsi sentire, per mezzo della rottura degli equilibri e delle forme precedenti. Rappresenta la possibilità di ritrovare le nostre aspirazioni perse, il nostro amore, il nostro rispetto della terra, non a partire da discorsi e pratiche vecchie bensì dalla costruzione del nuovo, del differente. Significa la riarticolazione di un campo alternativo: di quelli del Messico della cantina che cercano di dialogare col Messico in basso, dalla prospettiva che oramai non è necessario girarsi verso l’alto, il migliore omaggio che possiamo fare agli uomini e alle donne che promulgarono il Piano di Ayala è di riuscire nella costruzione di quell’Altro campo politico e sociale. Per quello si richiede la costruzione di un nuovo discorso di equivalenze che permetta di evidenziare che non c’è oramai più nessuna alternativa.
Alcuni anni fa, il Sup disse che non era necessario girarsi verso la Bolivia, che qui quello che si stava preparando era realmente nuovo. Fu interpretato male dai sapientoni;  non si tentava di dire che quello che succedeva in Bolivia non era importante. Loro si stanno comportando alla loro maniera e la saggezza dei suoi popoli indio metterà in evidenza che non si tenta di costruire il capitalismo andino (credo che quell’animale non esista), come dice il suo vicepresidente, il delluziano Álvaro García, bensì un’altra cosa. E che noi, dal nostro lato, dobbiamo tentare un’altra strada. Quella che parte da ciò che io chiamerei, non senza una certa prudenza, il metodo zapatista:  Ascoltare-domandare-camminare-elaborare-camminare-domandare-ascoltare e correggere. Elaborare occupa il quarto posto, correggere l’ottavo, ma esiste, non diventiamo tonti sulla responsabilità di quello che uno scrive. Ascoltare occupa il primo e il quinto posto, dopo aver elaborato bisogna tornare ad ascoltare.
Ascoltare, non prendersi semplicemente il tempo per sentire bensì per comprendere la voce che viene da sotto la terra della cantina, del quartiere. Ascoltare il dolore di quelli in basso non è una concessione -o come diceva un leader di sinistra “qualcosa che già sappiamo” ma rappresenta il dare il proprio posto a chi è chiamato a cambiare la situazione. Significa essere semplicemente uno strumento affinché si costruisca come soggetto conoscendo il dolore degli altri che soffrono con lui.
Domandare, non a partire dal voler confermare un’ipotesi di lavoro bensì cercare la ragione profonda della lotta e del dolore. Significa conoscere le offese e riconoscere gli elementi di dignità che permettono le risposte.
Camminare non è altro che collegare, promuovere che gli altri si conoscano, portare la parola dell’angolo più lontano del paese a tutti gli angoli che compongono il paese ed il mondo di quelli in basso..
Elaborare, significa assediare la realtà che c’è stata rivelata, sapendo che si tratta di ciò, assedi, mentre cerchiamo di collocare le tendenze di ciò che succede e di quello che la gente fa.
Camminare, un’altra volta, per vedere se quell’assedio è ciò che ci dissero, ciò che ci comunicarono.
Domandare sulle conclusioni alle quali si è arrivati dopo tutto il processo.
Ascoltare di nuovo, lasciare che ci dicano se quelle conclusioni sono le loro e non invenzioni metodologiche alle quali eravamo e, a volte, continuiamo ad essere tanto affezionati.
Infine correggere, inevitabilmente il nostro assedio fu limitato e richiede che si torni a costruire, riconoscendo esplicitamente quando ci sbagliammo e quando non sapemmo raccogliere o spiegare la voce di quelli in basso…
Bene, questo è tutto. Ancora è poco perché questo Nosotr@s continua ad essere in costruzione. Non siamo sacerdoti né leader, né tribuni né Cesari, né intellettuali né professori rossi, siamo semplicemente muratori della ribellione, della non-sottomissione, dell’insubordinazione. Siamo militanti.
Noi quelli che seminiamo una mela che non mangeremo.
Quelli che dall’ombra gigante dello zapatismo costruiamo l’altra ombra gigante della differenza.
Noi che fummo partoriti il 1 di gennaio del 1994, e che abbiamo raggiunto la nostra maggiore età nel giugno del 2005.
Noi quelli che Nessuno ci conosciamo, che non siamo Nessuno, i Nessuno che saremo. Quelli che venimmo dall’ombra, quelli che camminiamo nell’ombra, quelli che ci scioglieremo nell’ombra.
E, scusate, non potevo finire senza una certa nostalgia sessantottina perché non posso negare la mia origine, parafrasando le parole dei muri di Parigi direi: giovane insurrezione rossonera zapatista: ogni giorno più bella, ogni giorno più giovane.

Buon compleanno.
Grazie.

San Cristobal de las Casas

1 di gennaio del 2010.

Anno16.

Sergio Rodríguez Lascano

 


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