CRISI, EGEMONIA E LOTTA DI CLASSE

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Centocinquanta anni fa uno spettro si aggirava per l’Europa, era lo spettro del Comunismo. I potenti di tutto il mondo tremavano all’idea che i proletari di tutti i paesi potessero prendere coscienza della loro condizione di sfruttati, unirsi ed organizzarsi per sovvertire questo stato di cose. Oggi di questa coscienza e organizzazione “proletaria” non rimane che un lontano ricordo. Il potere, invece, ha imparato da noi e si è dotato proprio di questi indispensabili strumenti. Più “noi” ci disunivamo, più ci scordavamo, più la nostra controparte si rafforzava. Il collettivismo burocratico russo, spacciato per socialismo reale, ha poi inflitto il colpo di grazia al complesso delle teorie Rivoluzionarie. Durante la caccia alle streghe sono finiti bruciati anche strumenti di analisi tuttora validi come le classi, l’imperialismo e lo studio dei vincoli sistemici, finendo per favorire la visione di sistema di un solo mondo possibile. Questo caos teorico si palesa nelle varie interpretazioni sulla crisi ed il neoliberismo: le analisi più superficiali tendono a dare le responsabilità alla poca morale di qualche cattivo banchiere o alla corruzione delle classi politiche nazionali, altre vedono nella finanziarizzazione dell’economia e nel potere transnazionale della finanza la creazione di un Impero che, scollegato dagli stati nazionali e muovendo le leve sistemiche principali, li sovradetermina e dirige, usando anche le crisi come armi di sottomissione. Queste analisi minimizzano o cancellano le tendenze che vincolano il sistema e che ingabbiano gli attori nel gioco capitalista. Noi proveremo a ricollocare la crisi nel suo contesto storico e sistemico, focalizzando l’attenzione sulla struttura dei cicli, la funzione degli stati e il rapporto tra le classi nel capitalismo moderno. Infine tenteremo di avviare un dibattito su come ricreare la coscienza e l’organizzazione della classe degli sfruttati con il fine di rivoluzionare il mondo, arrestando cosi l’avanzata della barbarie a cui ci sta portando il capitalismo, creandone uno più giusto, democratico e libero. Potenti tremate, gli spettri son tornati!

I CICLI SISTEMICI DI ACCUMULAZIONE

Il primo vincolo che analizzeremo è quello dei cicli capitalistici di cui le espansioni finanziarie ne rappresentano la fase conclusiva. Già Marx faceva notare che “la superficialità dell’economia politica risulta fra l’altro che essa fa dell’espansione e della contrazione del credito, che sono meri sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale, la causa di quei periodi.(i) ragionamento poi espanso e strutturato dai sistemo-mondisti come Arrighi il quale, parlando dei cicli sistemici di accumulazione, spiega che: «La formula generale del capitale di Marx (D-M-D’) può dunque essere considerata descrittiva non solo della logica dei singoli investimenti capitalistici, ma anche di un modello ricorrente del capitalismo storico come sistema mondiale. L’aspetto principale di questo modello è costituito dall’alternanza di epoche di espansione materiale (le fasi D-M dell’accumulazione di capitale) e di epoche di rinascita e di espansione finanziaria (le fasi M-D’). Nelle fasi di espansione materiale il capitale monetario «mette in movimento» una crescente massa di merci (incluso la forza lavoro mercificata e le doti naturali); nelle fasi di espansione finanziaria una crescente massa di capitale monetario «si libera» dalla sua forma di merce, e l’accumulazione procede attraverso transizioni finanziarie (come nella formula marxiana abbreviata D-D’). Insieme, le due epoche o fasi formano un intero ciclo sistemico di accumulazione (D-M-D’).» (ii). Quindi credere che l’espansione finanziaria che abbiamo appena vissuto sia una novità assoluta vuol dire non aver capito qual’è la realtà storica dello sviluppo capitalistico fino ad oggi. Ripercorrendo quindi il «lungo XX secolo» (ma si potrebbe fare lo stesso per i cicli precedenti) incontriamo la prima fase di espansione materiale D-M, che possiamo datare dal 1945 al 1970 (circa), caratterizzata dall’internalizzazione dei costi di transizione (iii), dall’integrazione verticale delle imprese (iv) e dal fordismo (v). Nel mentre, la crescente sovraccumulazione di capitali abbassava i profitti nella produzione e scambio di merci (vi) dando il via alla fase di espansione finanziaria D-D’ che ricreò un «momento meraviglioso» per il regime di accumulazione americano ancora dominante (vii), ma allo stesso tempo aumentò la competizione per il capitale mobile (viii) e vide l’emergere di nuovi regimi che intensificarono la concorrenza egemonica (ix), arrivando, infine, alla crisi terminale del terzo ciclo di accumulazione che possiamo considerare la crisi del 2008. Naturalmente nessun ciclo è esattamente uguale a quello precedente: il capitalismo ha oscillazioni che tendono a riportare il sistema in equilibri semi-stabili e fenomeni di lunga durata che invece tendono ad esaurire le sue capacità di rinnovamento avvicinandolo ciclo dopo ciclo alla sua fine come sistema. L’unico modo per capire le differenze tra una fluttuazione e l’altra, e quindi trovare gli elementi di novità, è confrontare il diverso in fasi uguali.

LE EGEMONIE E IL RUOLO DEGLI STATI NEL CAPITALISMO

Un altro importante passaggio teorico compiuto da Arrighi è quello di aver legato questi cicli alle egemonie degli stati nel sistema-mondo cosi da mostrare uno sviluppo razionale e coerente del sistema capitalista da un punto di vista storico. Seguendo la strada Gramsciana l’autore definisce egemonia: «qualcosa di più e di differente dal dominio puro e semplice: è il potere addizionale, che deriva a un gruppo dominante dalla sua capacità di guidare la società in una direzione che non solo serve gli interessi del gruppo dominante stesso, ma che è percepita anche dai gruppi subordinati come finalizzata a un più generale interesse.» (x). Quindi per avviare un ciclo egemonico e la sua fase espansiva D-M è stato sempre necessario che uno stato, guidato dal suo gruppo dominante, fosse riuscito, dopo una “guerra dei trent’anni”, a stabilire delle regole sistemiche che alterassero il mercato mondiale a proprio vantaggio, obbligando gli stati subordinati ad accettarle come universali ma che, in realtà, garantivano uno spostamento di ricchezza periferia-centro. Quello del ruolo degli stati nazione nel sistema capitalista (e da esso creati) è un secondo vincolo che, se non capito, rischia di condannarci ad un futuro di guerra. Gli stati nazione, infatti, fanno parte, insieme alle classi (su cui torneremo più in là) e al mercato, degli ingranaggi base del capitalismo. Il loro ruolo è duplice: quello di controllare e normalizzare il rapporto tra classi dentro la sfera statale e quello di gerarchizzare la divisone del lavoro a livello sistemico garantendo, cosi, uno spostamento di plusvalore dagli stati periferici a quelli centrali. Citando Immanuel Wallerstein: «quando esiste una differenza di forza nelle macchine statali, otteniamo come risultato uno scambio ineguale che viene fatto valere dagli stati forti su quelli deboli, dagli stati centrali sulle zone periferiche. In questo modo, il capitalismo implica non solo l’appropriazione del plusvalore da parte del proprietario rispetto al lavoratore, ma anche l’appropriazione del plusvalore dell’intera economia-mondo da parte delle aree centrali» (xi). A questo punto possiamo facilmente capire che la prima e seconda guerra mondiale altro non sono stati che lo scontro egemonico tra America e Germania per la successione all’Inghilterra: vinta la guerra gli USA hanno potuto imporre il loro impianto di regole ed organizzazioni interstatali (Bretton Woods, NATO, ONU…) accettate da tutti e da tutti rispettate. Ma inevitabilmente i vincoli sistemici hanno finito per destabilizzare anche questa ulteriore fase di espansione materiale: i semi-monopoli che erano riusciti a crearsi le imprese americane (General Electric, General Motors…) a livello mondiale vengono erosi dalla concorrenza internazionale abbassandogli cosi i saggi di profitto e obbligando i capitali americani, alla ricerca di alti rendimenti, a cercare altri sbocchi di investimento come quello finanziario (xii). Da questo processo nasce il neoliberismo: come meccanismo dell’egemonia americana per prolungare il proprio regno. Chi vede nell’alta finanza qualcosa di scollegato dagli stati nazionali non capisce quanto questi siano fondamentali per garantire le regole internazionali che permettono l’esistenza stessa dei meccanismi speculativi, né comprende che senza l’apparato statuale americano non sarebbe stato possibile corrompere (in alcuni casi è servito anche del sangue) la politica degli stati più deboli di tutto il mondo. Certo è che la crescita in dimensione e complessità che gli stati nazione hanno subito nel corso della storia del capitalismo non si è arrestata. La fase di cessione di sovranità che oggi stiamo vivendo anche in Europa, a favore di blocchi produttivi di dimensioni continentali, altro non è che l’espressione di questa necessaria crescita per poter competere nel sistema-mondo capitalista.

LA CRISI DEL NEOLIBERISMO

Dopo 30 anni di deregolamentazioni e di lotte inter-classe la borghesia finanziaria americana sembrava aver raggiunto il controllo totale del sistema, tutto sembrava possibile: abbassare i salari e compensarli con del debito, fare e disfare governi, tagliare servizi e diritti e sostituirli con prestiti, speculare in un mondo senza regole e nell’ombra più assoluta. I “tecnici” si erano illusi, ancora una volta, di poter controllare le contraddizioni insite al sistema, ma, un giorno, quel sogno finì. Proprio chi aveva mire imperiali, proprio chi credeva di avere sotto controllo i mercati ed il mondo, si trova ora in ginocchio davanti agli stati nazionali a piangere per essere salvato. Non prendiamoci in giro. Il sistema finanziario mondiale è già fallito nel 2008, l’unico motivo per cui ci trasciniamo ancora in questa situazione è che i suoi burattini politici in giro per il mondo hanno iniettato 7.000 miliardi di dollari di liquidità nel sistema bancario (xiii), sperando cosi di riempire uno scolapasta di acqua. Stranamente l’acqua continua ad uscire e questo, oltre per l’ovvio motivo dei buchi (xiv), anche perché più moneta si crea più la si svaluta, più ne servirà per raggiungere lo stesso valore. L’unica, irrealizzabile, soluzione sarebbe quindi iniezioni di liquidità esponenziali! Un altro problema creato dalla crisi neoliberista del 2008 è stato, come conseguenza dei vari salvataggi delle banche, lo spostamento del debito dal privato al pubblico, aumentando a dismisura l’onere su quest’ultimo e aggravando ulteriormente le condizioni di insolvenza di tutti gli stati “globalizzati”. Ormai è diventato difficile ripagare non il debito ma il suo solo interesse! Non è facile prevedere quale tra le tante malattie sarà quella fatale, se i debiti periferici o la bolla dell’oro di “carta” (xv), se la bolla immobiliare o quella dei derivati, ma la cosa certa è che quando l’unica cura possibile per un male smette di funzionare ma anzi peggiora la situazione il malato muore. I dati disastrosi dell’economia reale stanno spegnendo anche le ultime speranze di ripresa, la disoccupazione è in aumento, il credito alle imprese bloccato, i fallimenti in crescita esponenziale, all’orizzonte non rimane che una recessione globale prolungata. L’esplosione finale di questo sistema finanziario insostenibile è prossima e questo viene ammesso anche da analisti “borghesi” come quelli del LEAP\E2020 che a novembre segnalavano che «nel 2012 il complesso dei debiti pubblici occidentali soffrirà un taglio del 30 %» (xvi) e, in un articolo precedente, facevano notare come almeno una percentuale tra il 10 e il 20 % delle banche mondiali sarebbero fallite e probabilmente nazionalizzate. Questo significa che gli stessi capitalisti (almeno quelli che vogliono riavviare una fase D-M) ammettono che è impossibile ripagare i creditori. E allora “noi” per cosa ci stiamo battendo? Vogliamo anche “noi” che la BCE stampi moneta e compri i titoli di stato Europei? Creare soldi, pero, svaluta la moneta e questo significa spostare ricchezza dai salari e dalle pensioni (a reddito fisso) ai profitti. Quindi auspicare che la BCE, come la FED, compri tutti i titoli di stato europei, come fa buona parte della sinistra europea, non vuol dire altro che augurare la fame agli sfruttati. Favorendo, inoltre, la creazione di uno stato europeo forte a discapito degli altri stati e popoli del mondo, con una divisione gerarchica del lavoro centro-periferia al suo interno, e rispettivo spostamento di plusvalore verso il centro (quindi reale sfruttamento). Proprio “noi” dobbiamo aiutare la borghesia industriale a riconquistarsi il posto egemone tra le classi? Vogliamo partecipare, indossando la maglietta della nazionale Europea, alla guerra mondiale egemonica, nella speranza di vincerla, cosi da poter poi sottomettere il mondo ai nostri interessi, garantendoci però, all’interno delle nostre frontiere, democrazia e benessere?

LE CLASSI E LA LOTTA

Ora è il momento di chiarire il “noi” e tornare a parlare di un altro strumento di analisi indispensabile per capire la realtà che ci circonda: le classi. L’idea che in ogni sistema produttivo esistano classi economicamente contrapposte, quindi in “lotta”, anche se non consapevolmente, venne esplicitato da Marx, nel sistema capitalista, come lotta tra borghesi, proprietari dei mezzi di produzione, e proletari, possessori di nulla se non della propria forza lavoro. Quindi per classe rivoluzionaria si intendeva la classe operaia, perché l’unica che, per la sua caratteristica di nulla tenenza, emancipando se stessa non avrebbe potuto che emancipare l’intera società. Le classi, come quella dei contadini, solo in parte proprietarie dei mezzi di produzione, venivano cosi “escluse” dalla teoria rivoluzionaria perché potenzialmente reazionarie, in quanto interessate a difendere le proprie proprietà. Si creava quindi una frattura all’interno degli sfruttati che in seguito ha generato spiacevoli conseguenze. Questa teoria nasce dall’affermazione, erronea, secondo la quale l’operaio salariato è il tipico lavoratore capitalista, l’unico da cui il capitale possa estrarre plusvalore e che invece relegava appunto i lavoratori dei campi e schiavi come residui di vecchi modi di produzione. Immanuel Wallerstein (xvii) ha cercato di risolvere questa contraddizione del marxismo ripartendo dallo stesso Marx, che riguardo ai contadini francesi dell’800 scriveva: «si comprende quale fu la situazione dei contadini francesi, quando la repubblica ebbe aggiunto ancora nuovi pesi oltre gli antichi. Si vede che il loro sfruttamento differisce dallo sfruttamento del proletariato industriale soltanto per la forma. Lo sfruttatore è il medesimo: il Capitale.» (xviii). E in un altro passo, parlando invece del lavoro schiavo nel sistema capitalista: «dove predomina una concezione capitalista, come nelle piantagioni americane, tutto questo plusvalore è considerato profitto. Là dove il modo di produzione capitalistico non esiste, né le concezioni che vi corrispondono sono state importate da paesi capitalistici, appare come rendita.» (xix). Quindi lo stesso Marx fa notare che sia per i contadini sia per gli schiavi si ha estrazione di plusvalore in un modo che cambia solo nella forma, ma non nella sostanza, rispetto al proletario industriale. Ma allora i lavoratori non “operai” sono classe rivoluzionaria? A chi ci dobbiamo rivolgere per la liberazione della società dallo sfruttamento? La soluzione a questi dilemmi Wallerstein la trova nella struttura del sistema capitalista nel suo insieme: nel capitalismo esiste una divisione del lavoro strutturata e gerarchica in cui ogni singolo lavoro è indispensabile per la catena di produzione sistemica. I contadini inglesi del XIX secolo si sono potuti trasformare in operai salariati solo perché altri lavoratori, in altre parti del sistema, li hanno sostituiti nella produzione di alimenti (xx). Questa divisione del lavoro, attribuendo priorità e vantaggi a specifici lavori, garantisce lo spostamento di plusvalore tra le classi. Quindi, tornando a Marx, se il contadino, proprietario di una parte dei mezzi di produzione, è da considerare sfruttato, nella sostanza, al pari dei lavoratori salariati, allora la caratterizzazione di classe rivoluzionaria adottata non poteva più essere valida. Cosi il sociologo americano arrivò a ridefinire la principale frattura fra le classi nel capitalismo non più in base alla proprietà, bensì in base allo sfruttamento reale (plusvalore): «possiamo considerare appartenenti alla borghesia coloro che ricevono una parte del plusvalore che loro stessi non creano ma che usano in parte per accumulare capitale. Il borghese non si definisce per una particolare professione e neanche per il suo status legale di proprietario (sebbene storicamente quest’ultimo sia stato importante), ma per il fatto che ottiene, sia come individuo che come membro di una qualche collettività, una parte del plusvalore da lui non creato […] ne consegue che il proletariato è formato da coloro che cedono parte del valore da essi creato ad altri. In questo senso nel modo di produzione capitalista esistono solo borghesi e proletari. La polarità è strutturale.» (xxi). Questa definizione permette il miglioramento di uno schema che è stato, per un periodo, sicuramente funzionale alla lotta, ma che ci ha anche diviso e contrapposto come sfruttati. Operai, contadini, lavoratori immateriali siamo tutti parti indispensabili di un immenso meccanismo in cui ad ogni nostra aggiunta di valore, nel processo produttivo totale, corrisponde il furto di una parte di questo valore da parte della nostra borghesia nazionale e da parte delle aree superiori nella gerarchia capitalista. Una delle conseguenze è che, a livello mondiale, il proletariato dei paesi centrali, tramite la redistribuzione di ricchezza usata dalle borghesie come sedativo per le lotte di classe nazionali, sfrutta quelli dei paesi periferici. Se vogliamo un mondo di Pace non possiamo fare finta che ciò non avvenga. Questo non vuol dire, però, che vada eliminato lo studio dei vari interessi “corporativi” delle varie classi che compongono gli sfruttati all’interno delle nazioni, ne che vadano sottovalutati ai fini della creazione di un mondo senza classi; vuole semplicemente dire che nella lotta di classe attuale, dentro i singoli stati, lo scontro principale si ha tra due macrogruppi (l’esempio più chiarificatore si ha sulla lotta di classe per il welfare tra chi ne giova e chi ci rimette) di cui uno ruba lavoro e valore all’altro. E sopratutto vuol dire che l’unico modo per evitare queste logiche corporative è un programma di cambiamento che sia valido per le mille facce delle nostre mille lotte. La classe degli sfruttati rappresenta il gruppo massimo di persone che, a livello sia nazionale che internazionale, ha l’interesse materiale in un cambiamento sistemico. Il problema principale è che non lo sa. Chiunque voglia ottenere un’evoluzione rivoluzionaria della società dovrà creare la coscienza e l’organizzazione di questo gruppo. L’affascinante proposta di divisione dell’1% contro il 99%, anche se bella come immagine, non rappresenta la reale frattura di sfruttamento e rischia, cosi, di aiutare la borghesia industriale nel suo tentativo di guidare l’ira popolare solo contro le banche e non contro il sistema. Chiunque ha privilegi dovuti a sfruttamento, anche se inconsapevolmente, sarà portato a difenderli, chiunque riceve più di quello che produce (ovviamente vale anche a livello mondiale), anche se non organizzato o influente sul potere, tenderà a conservare questo privilegio anche solo appoggiando la repressione di chi lo mette in discussione. Qualcuno potrebbe obiettare che, allargando così tanto la base rivoluzionaria, non si possa evitare che gli interessi di una delle classi sfruttate pregiudichino l’emancipazione dell’intera società. La risposta ha a che fare con l’organizzazione che vogliamo costruire. Se, come in Chiapas, si dota la società civile di strumenti decisionali orizzontali e democratici a cui ci si rimette, se si rinuncia alla logica delle avanguardie e quindi dello scontro corporativo, se non ci si scorda di essere inseriti in un contesto di sfruttamento mondiale e quindi si capisce la funzione gerarchizzante degli stati, se si mira alla creazione di un mondo in cui tutti siamo protagonisti politici e sociali, allora l’obiezione perde di senso (xxii). Le lotte delle donne, dei lavoratori, degli omosessuali, degli ecologisti, dei migranti, degli esclusi, o per i beni comuni sono un’unica lotta, con un’unica soluzione possibile: la costruzione di un altro mondo possibile. La lotta di liberazione del genere umano per la sua emancipazione è unica perché mai possono coesistere nello stesso mondo libertà e sfruttamento. Fare la Rivoluzione significa creare un nuovo sistema produttivo valido per tutti e funzionante per tutti, senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo, più giusto, più democratico e più libero. Non è un evento puntuale di presa del potere ma un processo dialettico di creazione, correzione e miglioramento che purtroppo nessuno sarà in grado di prevedere ma che si realizzerà solo strada facendo. Ciò che dobbiamo cominciare a costruire è la struttura democratica-partecipativa che dal basso arriverà a sostituirsi agli stati borghesi, questo vale nelle fabbriche come nelle campagne o nei quartieri. La crisi sta obbligando il sistema a espellere lavoratori ed intere comunità dalla propria divisione del lavoro, cosi facendo li sta liberando dai propri vincoli ma allo stesso tempo li sta condannando alla fame, obbligandoli a cercare altre vie per sopravvivere. In tutto il mondo i disoccupati, gli sfrattati, gli affamati si stanno inventando o riscoprendo forme, nuove o vecchie, di resistenza allo sfruttamento. In queste dobbiamo ricostruire quella coscienza di classe ormai persa e ridisegnare un cammino verso una vita degna per tutti che, ormai, il capitalismo non è più in grado di offrire. Il rischio, altrimenti, che la disperazione e le facili soluzioni gli facciano prendere strade nazional-socialiste è forte (xxiii). Dobbiamo mettere al servizio di queste degne lotte le nostre competenze, le nostre strutture ed i nostri corpi e nella partecipazione, come sfruttati, accompagnarle verso un’uscita anti-sistemica. Proviamo a capovolgerne tutti i paradigmi! Trasformiamo un mondo conflittuale in uno cooperativo, la produzione di valori di scambio in quella di valori d’uso, i brevetti in conoscenza condivisa, la divisone gerarchica degli stati in una unità mondiale armonica che sia creata dal basso verso l’alto.

CONCLUSIONI

Abbiamo mostrato come il neoliberismo sia figlio della fase finanziaria dell’egemonia americana allo stesso modo in cui il liberismo lo fu per quella inglese, abbiamo analizzato i vincoli principali del sistema capitalista che ci hanno permesso di escludere la possibilità di creare “un’altra Europa” in un mondo conflittuale e basato sullo sfruttamento, abbiamo provato a ridefinire il “noi” a cui ci rivolgiamo e infine provato a gettare delle linee guida d’azione. Ora cercheremo di capire quale sarà il futuro più probabile se gli sfruttati di tutto il mondo non saranno in grado di prendere finalmente la storia nelle loro mani. Giovanni Arrighi vedeva le novità principali della fase finale di quest’ultimo ciclo egemonico nella “biforcazione tra il potere militare (Stati Uniti) e il potere economico (Asia orientale)” e nell’impossibilità della “formazione di blocchi di organizzazioni governative e commerciali ancora più potenti e dotati di maggiori capacità, rispetto al blocco precedente, di incrementare la portata spaziale e funzionale del capitalismo mondiale.(xxiv). Da queste arrivò a delineare tre possibili scenari di uscita dalla crisi egemonica: un impero mondiale post-capitalista in grado di riunire il potere militare ed economico, un nuovo ciclo egemonico centrato in Asia ed infine un caos sistemico simile a quello in cui si dissolse il feudalesimo (xxv). Quando lo studioso italiano, nel 1996, arrivò a queste conclusioni lo stato che più appariva indirizzato alla successione egemonica era il Giappone, senza un esercito credibile e di dimensioni e capacità ridotte; oggi invece la Cina sembra sempre più in grado di ridurre il gap militare con gli USA e allo stesso tempo, nella successione evolutiva in complessità e grandezza che ha caratterizzato gli stati-nazione durante i cicli di accumulazione, rappresentarne un’ulteriore evoluzione. I segnali che la guerra egemonica è già cominciata sono molti, anche se i primi bombardamenti sono stati solo economici (protezionismo, svalutazione mirata della propria moneta per favorire le esportazioni, scontri geopolitici per lo sfruttamento delle materie prime, attacchi speculativi e informatici) il rischio che a questi seguano anche quelli reali è forte. Le vecchie alleanze si infrangono e nuove se ne creano. Il nemico cinese è diventato un possibile “modello” mentre lo stanco Re americano sguinzaglia contro il vecchio amico europeo le mani “invisibili” del mercato. Viviamo e vivremo in un mondo instabile, violento e caotico, questo però ci apre una “finestra di transizione” in cui la possibilità di costruire un altro mondo non è solo concreta ma anche auspicabile per i più. La luce del mattino ci riscalderà solo se sapremo superare uniti il buio più profondo della notte. Concludiamo con un estratto di un articolo di Gramsci del 1920 in cui fa una critica, secondo noi tuttora valida, degli errori che hanno portato il proletariato italiano ad appoggiare il fascismo, non comprendendo i rapporti di classe e il ruolo dell’Italia nella guerra e nel sistema mondiale: «La piccola borghesia e gli intellettuali, per la posizione che occupano nella società e per il loro modo di esistenza, sono portati a negare la lotta delle classi e sono condannati quindi a non comprendere nulla dello svolgimento della storia mondiale e della storia nazionale che è inserita nel sistema mondiale e obbedisce alle pressioni degli avvenimenti internazionali. La piccola borghesia e gli intellettuali, con la loro cieca vanità e la loro sfrenata ambizione nazionalistica, dominarono la guerra italiana, ne diffusero una ideologia astratta e ampollosa e ne furono travolti e stritolati, perché la guerra italiana era un momento secondario della guerra mondiale, era l’episodio marginale di una gigantesca lotta per la spartizione del mondo tra forze egemoniche che avevano bisogno dell’Italia come di una semplice pedina nel loro formidabile giuoco. […] il proletariato non era riuscito durante la guerra, nella compressione e nell’oppressione della guerra, ad acquistare la coscienza di sé e della sua missione storica, non era riuscito a espellere dal suo seno il proprio incrostamento parassitario piccolo borghese e intellettuale. Anche il proletariato ha la sua «piccola borghesia», come il capitalismo; e l’ideologia dei piccoli borghesi che aderiscono alla classe operaia non è, come forma, diversa da quella dei piccoli borghesi che aderiscono al capitalismo. Vi si trova lo stesso elemento di vanità sconfinata (il proletariato è la più gran forza! il proletariato è invincibile! nulla potrà arrestare il proletariato nella sua fatale marcia in avanti!) e lo stesso elemento di ambizione internazionale, senza una esatta comprensione delle forze storiche che dominano la vita del mondo, senza la capacità di identificare nel sistema mondiale il proprio posto e la propria funzione.» (xxvi).

Ora il capitalismo è in crisi e questo lo rende altamente instabile e fragile.
Ora è il momento di spezzare i nostri vincoli e abbatterlo.
L’impossibile è solo qualcosa che tarda nell’avverarsi.

 

i Karl Marx, “Il Capitale”,vol. 1 cap. 25

ii Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”, pag. 23

iii Come il ciclo olandese aveva internalizzato i costi di protezione e quello inglese quelli di produzione.

iv Come la fase espansiva inglese da integrazione orizzontale.

v «L’integrazione dei processi della produzione di massa con quelli della distribuzione di massa all’interno di una singola organizzazione diede origine ad un nuovo tipo di impresa capitalistica. Internalizzando un’intera sequenza di sotto processi di produzione e di scambio, dall’approvvigionamento degli input primari alla distribuzione dei prodotti finali, questo nuovo tipo di impresa capitalistica fu in grado di assoggettare i costi, i rischi e le incertezze che derivano dal trasferimento delle merci lungo quella sequenza alla logica economizzante dell’agire amministrativo e della pianificazione di lungo termine da parte delle grandi imprese.». Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”, pag. 316

vi «un agente capitalistico, per definizione, è interessato principalmente, se non esclusivamente, all’incessante espansione della sua quota di denaro (D) e, a questo scopo, metterà continuamente a confronto i rendimenti che potrà ragionevolmente attendersi dal reinvestimento del suo capitale nelle transizioni in merci (cioè dall’aumento di valore in base alla formula D-M-D’), con i rendimenti che può ragionevolmente attendersi dalla scelta di conservare in forma liquida le eccedenze monetarie per poi essere pronto a investirle in transizioni finanziarie (cioè dall’aumento di valore secondo la formula abbreviata D-D’).». Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”, pag. 301

vii «Tuttavia, questo momento meraviglioso non è mai stato, per quel regime, l’espressione di rinnovate possibilità di generare una nuova tornata di espansione materiale dell’economia-mondo capitalistica. Al contrario, è sempre stato l’espressione di un’intensificazione della lotta concorrenziale e di potere che era sul punto di causare la crisi terminale del regime». Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo” , pag. 313

viii Quindi la competizione sul costo del lavoro.

ix Europa e Giappone a cui si sono aggiunti Cina e Russia.

x Giovanni Arrighi, “Caos e governo del mondo”, pag. 31

xi Immanuel Wallerstein, “Alla scoperta del sistema mondo”, pag. 109

xii Scelta quasi forzata perché la potenza egemone, grazie alla centralizzazione del plusvalore mondiale, al momento dell’inversione ciclica, dispone di enormi capitali e un controllo preferenziale sui mercati mondiali.

xiii Zerohedge, zerohedge.com/news/marginal-utility-central-bank-intervention-rapidly-diminishing

xiv I buchi rappresentano la distanza dei valori fittizi neoliberisti dai valori reali; durante il processo di ritorno alla realtà, cominciato dalla crisi, più grandi sono i buchi più grande è la ricchezza che risucchiano.

xv ‘Global Europe Anticipation Bulletin’ n. 54-55

xvi GEAB N. 59, ‘Global Europe Anticipation Bulletin’

xvii Immanuel Wallerstein, “La scienza sociale come sbarazzarsene. I limiti dei paradigmi ottocenteschi”, par. Marx e il sottosviluppo

xviii Marx, 1977b, pag. 118

xix Marx, 1965, III, pag. 916

xx Come oggi nei paesi centrali del sistema ci siamo potuti trasformare in lavoratori immateriali perché altri lavoratori, nelle aree periferiche, ci hanno sostituiti nella produzione di merci e alimenti.

xxi Immanuel Wallerstein, “Razza Nazione e Classe”, par. Il conflitto di classe nell’economia-mondo capitalistica

xxii Sergio Rodriguez Lascano, “2010: dalla crisi del dominio all’organizzazione indipendente”, Rebeldia n. 76

xxiii Il “fascismo” è una risposta sempre possibile del capitalismo per risolvere in modo autoritario le crescenti lotte di classe dovute alle crisi.

xxiv Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”, Postfazione (2009), storicamente.org/05_studi_ricerche/giovanni_arrighi.htm

xxv I. Wallerstein, T. Hopkins, “L’era della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo (1945-2025)”

xxvi Antonio Gramsci, “Sul fascismo”, Previsioni , Avanti! 19 ottobre 1920


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